Corriere del Ticino
Sabato 15 febbraio 2020

di Carlo Silini


Il libro
La ricchezza del paesaggio culturale

Gli autori

Si intitola Castel San Pietro. Paesaggi culturali in Canton Ticino il saggio curato da Francesca Albani sulle trasformazioni del paesaggio nel villaggio del Mendrisiotto. Il testo prevede contributi di Francesca Albani, Stefania Bianchi, Florindo Brazzola, Anna Ferrugiari, Mauro Casartelli, Marco Galimberti, fotografie di Gianluca Poletti e Alessandro Zaramella.

I contenuti

L’espansione urbana avvenuta in tutto il Cantone a partire dagli anni Settanta non ha risparmiato il comune di Castel San Pietro. L’edificazione di villette, modello abitativo prediletto dalla popolazione svizzera, ha contribuito alla dispersione disordinata degli insediamenti. Nel volume si presentano alcuni saggi sulla storia dello sviluppo urbano nel villaggio, sottolineando la ricchezza del patrimonio presente: dalle chiese antiche a Villa Turconi, alle vecchie masserie. Ma si getta anche uno sguardo verso un futuro urbanistico più rispettoso dei beni culturali da tutelare e della sostenibilità abitativa a Castel San Pietro.

 



Parla Francesca Albani

«Un borgo e due anime»

Un paese da proteggere

Abbiamo chiesto a Francesca Albani, curatrice del volume che verrà presentato oggi a Castel San Pietro (vedi articolo principale) di spiegarci i contenuti del suo lavoro. «Conosco Castel San Pietro - ci spiega - perché sono stata chiamata per fare la consulenza per i restauri della chiesa parrocchiale del XVII secolo con un’importantissimo apparato decorativo a stucco. In questa occasione conosco l’Associazione Arte e Terra con la quale ho portato avanti questo lavoro su Castel San Pietro, un borgo che rientra nell’inventario federale degli insediamenti svizzeri da proteggere di importanza nazionale».

L’antica struttura

Castel San Pietro, prosegue l’architetta, è un borgo con due anime: «Una era legata alle grandi produzioni della famiglia Turconi, che ha una villa con una serie di possedimenti e un sistema di masserie molto complesso (Loverciano). L’altra è quella delle abitazioni private che disegnano il borgo vero e proprio e che appartenevano alle maestranze che nel periodo invernale andavano a lavorare all’estero e tornavano in paese in inverno».

I catasti storici

Il lavoro fatto da Francesca Albani insieme a specializzandi e dottorandi del Politecnico di Milano parte dall’analisi dei catasti storici. «Nei documenti conservati all’archivio del Municipio troviamo una fotografia di ciò che era il borgo a metà del XIX secolo. Vediamo un costruito diffuso e una grande presenza fondiaria attorno a villa Turconi. Si osserva una serie di terreni coltivati a vite, pascoli e prati tipici dell’economia di sussistenza. È un’immagine che vale probabilmente anche per i secoli precedenti: zone costruite con grandi terreni e nuclei riconoscibili».

Lo sviluppo

Già dagli anni Trenta del ‘900 la musica cambia. «Esatto, c’è stato un processo di saturazione del territorio. Le zone coltivate si riempiono di residenze private, un modello insediativo comune, con le case monofamigliari». Così oggi, non si riconoscono più i nuclei che una volta erano molto definiti (il nucleo centrale, il borgo di Loverciano, Obino, eccetera). «Le zone dove rimangono le coltivazioni e il verde diventano a questo punto preziosissime».

Lo scopo della ricerca

La ricerca curata da Francesca Albani intende quindi mettere in luce una serie di caratteristiche importanti del villaggio «che gli strumenti di pianificazione devono tenere in considerazione. Perché, anche se il villaggio rientra negli inventari citati, la pianificazione in realtà non ha mai preso in considerazione la logica di conservazione delle caratteristiche importanti del territorio».

Le idee dei giovani

Affascinata dal territoio, Francesca Albani ha poi proposto agli studenti del Politecnico di Milano di studiare alcuni temi specifici del borgo per proporre progetti per il futuro. «Come ad esempio valorizzare il sistema delle masserie, come è stato fatto coi Cuntitt, anche attraverso itinerari turistici che le attraversino».

Cabrei e ricerche fotografiche

Il libro è corredato da un servizio fotografico di Gianluca Poletti che mette in risalto le caratteristiche attuali del villaggio. «Sono poi pubblicati per la prima volta i catasti storici e i cabrei, documenti che le famiglie come i Turconi e gli Agustoni, utilizzavano per la gestione del proprio territorio, di cui parla la storica Stefania Bianchi. Da sottolineare anche l’intervento di Britta Buzzi che attesta la ferma volontà del Cantone di promuovere la cura del territorio».


La chiesa parrocchiale di Castello. © CdT/c.s.


Tutelare il territorio laddove spuntano le villette selvagge

Mendrisiotto / Negli anni Settanta anche in Svizzera c’è stato un boom edilizio incontrollato Ora l’adeguamento dei piani regolatori alla legge per la protezione dei beni culturali spinge molte amministrazioni a cambiare l’approccio all’urbanistica - L’esempio di Castel San Pietro

Viviamo immersi dentro un patrimonio culturale che spesso ignoriamo e a volte prendiamo (metaforicamente) a calci. Molti villaggi ticinesi che per decenni hanno avallato la speculazione edilizia, oggi si risvegliano rendendosi conto di non avere tutelato a sufficienza i propri tesori. E corrono ai ripari. Come nel caso di Castel San Pietro.

L’occasione per parlare di questo tema ci è offerta da un libro che verrà presentato domani alle 16.00 nella sala Bettex dell’ex Masseria Cuntitt a Castello: Castel San Pietro. Paesaggi culturali in Canton Ticino, curato da Francesca Albani per le edizioni Gangemi. Il volume si apre con una citazione della sindaca di Castel San Pietro Alessia Ponti: «Credo fortemente in quanto affermato da Oscar Niemeyer, importante architetto brasiliano del XX secolo. La morfologia del territorio, così come la trasformazione dello stesso attraverso i secoli, raccontano la nostra storia passata, presente e futura. Spiegano alle nuove generazioni qualcosa di un popolo, che va ben oltre la semplicità descrittiva; ne raccontano la storia, le tradizioni, i valori. Per questo motivo chi si occupa di politica non può che prendere a cuore la pianificazione del territorio e il suo sviluppo architettonico».

Ad «accorgersi» del disordine pianificatorio del Comune è stata, in particolare, l’Associazione Arte e Terra a Castello. Incontriamo il segretario Florindo Brazzola a casa sua, lungo la strada che scende dal villaggio verso Balerna. «Io stesso – ci spiega - sono testimone della profonda trasformazione che ha subito il paese. Sono arrivato qui nel 1975, dopo anni di lavoro a Zurigo. E ho assistito al boom di costruzioni del dopoguerra. A Castello, però, nessuno voleva dei casermoni».

Così, aggiunge Brazzola, «negli anni Settanta chi ha potuto si è costruito la propria villetta, possibilmente vicino alla strada, magari arrangiandosi come poteva per le canalizzazioni e tutto il resto. Bisogna dire che il primo piano regolatore prendeva a modello quelli della Svizzera interna di allora, dove si costruiva e si costruiva. Insomma, una stagione di costruzioni selvagge, caratterizzata da una grande indisciplina edilizia. Ne è derivato un notevole disordine abitativo nel villaggio».

Tutto parte dal sagrato

Saltiamo in macchina e, adattandoci alla gimcana imposta dalle indicazioni stradali per percorrerlo, facciamo un giro nel paese. Le villette le vediamo: sono tante e di sicuro hanno eroso parecchio terreno al verde. Lo studio di Francesca Albani lo conferma, le casette hanno sostituito una parte considerevole degli antichi spazi coltivati. Costruzioni selvagge, sì, ma pur sempre inserite nella natura verdeggiante ai piedi del Generoso. Edifici spuntati come funghi all’epoca della speculazione edilizia convivono con piccoli tesori d’arte e di architettura negletti per molti anni. Un contesto da proteggere. E il segnale è stato colto, ci sono dei valori che vanno preservati.

«Da sette anni – commenta Brazzola - la nostra Associazione si sta chiedendo come valorizzare alcuni spazi del vecchio nucleo di Castel San Pietro. L’idea ci è venuta una decina di anni fa, durante i restauri della chiesa di sant’Eusebio, curati dall’architetta Francesca Albani. Si lavorava per la sistemazione interna ed esterna dell’edificio religioso, ma restava irrisolta la questione del grande piazzale antistante la chiesa: ormai non era più l’ampio e antico sagrato di un tempo, era diventato un parcheggio. Così è nato lo studio urbanistico sul paese».

Tenendo conto di una nuova visione politica della questione. «Il territorio di Castel San Pietro è caratterizzato dalla compresenza di un importante patrimonio naturale e culturale, oggi sotto-utilizzato», scrive nel libro Giacomo Falconi, presidente dell’Associazione Arte e Terra a Castello. «Oggi, aggiunge Falconi, si è avviato un uso parsimonioso del suolo e si favoriscono insediamenti di qualità e centripeti alfine di poter preservare gli spazi non costruiti per l’agricoltura e lo svago. A Castel San Pietro si stanno intraprendendo i primi passi in questo senso».

L’esempio dei Cuntitt

Cosa sta cambiando?, chiediamo a Brazzola: «Nell’arco di due anni – risponde - l’edificio della chiesa sarà restaurato anche all’interno, quello delle vecchie scuole probabilmente sarà ristrutturato e la Masseria Cuntitt è stata restaurata e rivitalizzata». Vale la pena di andarla a vedere, la Masseria: per chi ricorda com’era ridotta è davvero un bell’esempio di recupero del patrimonio locale.


Castel San Pietro ha subito molte trasformazioni, soprattutto dagli anni Trenta del ‘900. Ma resta immerso in un mare di verde. © archivio cdt

 

Quando Obino apparteneva ai monaci

la curiosità/ La prima menzione di una frazione del villaggio risale a un documento del nono secolo

«Devo farle vedere una cosa». Florindo Brazzola scosta alcune carte dalla scrivania e ci mostra raggiante la fotografia in grandezza naturale di un antico documento . «Questa è la prima attestazione conosciuta che riguarda Castel San Pietro, per la precisione la frazione di Obino (Oblino, in latino). Risale all’865».

Si tratta, ci spiega, di un atto di donazione trovato all’Archivio di Stato di Milano. «Il testo dice che un certo Sigerato regalava un vastissimo territorio che comprendeva una masseria, dei boschi e dei campi al monastero di Sant’Ambrogio a Milano. Sigerato non era uno sconosciuto, era il figlio del conte Leone, un alto magistrato al servizio di Carlo Magno».

Dalla lettura di quel documento si ricava l’impressione che l’oggetto della donazione sia stato un vastissimo territorio dell’odierno Comune di Castel San Pietro.

Il monastero milanese di sant’Ambrogio era stato fondato nel 784 e affidato ai monaci benedettini. Aveva possedimenti in tutto il territorio pre alpino. In particolare, per quanto riguarda il nostro comprensorio, a Campione d’Italia.




INTERVISTA / Tiziano Fontana / presidente della Società ticinese per l’arte e la natura

«In Ticino 160 Comuni sono ancora in ritardo»

Quali tendenze emergono dal punto di vista della tutela del territorio dal caso di Castel San Pietro? Lo abbiamo chiesto al neopresidente della STAN Tiziano Fontana.

«La Società ticinese per l’arte e la natura (STAN) - ci ha risposto - è stata chiamata a più riprese da cittadini a intervenire su domande di costruzione puntuali, riferite a un autosilo a Castello e all’edificazione di palazzine o per altri interventi edilizi a Corteglia. Analizzando i Piani regolatori (PR) dei Comuni che costituiscono oggi Castel San Pietro abbiamo constatato diverse criticità legate, da una parte, al sovradimensionamento e, dall’altra, alla non conformità all’evoluzione legislativa degli ultimi decenni».

A cosa si riferisce?

«Alle modifiche a livello federale e cantonale. Per esempio, alla legge sulla protezione dei beni culturali (LBC), entrata in vigore nel 1997. Il Comune di Castello ha avviato, a fine 2019, una revisione dei suoi PR per adeguarsi ai cambiamenti legislativi. L’auspicio è che si possa inserire anche la proposta di tutela di beni culturali di interesse locale, un tema molto sentito dalla popolazione. Castel San Pietro è infatti uno dei tanti Comuni che non hanno ancora avviato una revisione in tal senso».

Cosa dovrebbe essere tutelato?

«L’Oratorio dell’Addolorata e di San Nicola da Tolentino nel nucleo di Corteglia che non è tutelato anche se l’Ufficio Beni culturali l’aveva segnalato anni fa. È una richiesta avanzata anche dalla popolazione che, mi auguro, il Municipio voglia ascoltare».

Il discorso, quindi, vale non solo per l’esempio di Castello.

«Vale per l’intero Ticino. La maggior parte dei Comuni ticinesi non ha ancora adeguato i piani regolatori alla legge sulla protezione dei beni culturali. Stando ai dati del 2019, su 250 Comuni, circa 80 non hanno ancora avviato una revisione, altri 80 hanno avviato una revisione ma parziale perché non ancora legata al censimento informatizzato dell’Ufficio dei beni culturali; solo una trentina ha già fatto la revisione, mentre restano una sessantina i Comuni con il PR in revisione».

Come adeguare il PR alla protezione dei beni culturali?

«Un Municipio deve procedere a un esame approfondito del Censimento dei beni culturali allestito dall’Ufficio dei beni culturali, valutare gli oggetti meritevoli e motivare approfonditamente le scelte che saranno sottoposte al Consiglio comunale. Molti Comuni non l’hanno fatto».

Come mai?

«È una procedura complessa e gli interessi in gioco sono rilevanti. La LBC ha introdotto un concetto nuovo, quello di bene culturale, in sostituzione del concetto di monumento. Il bene culturale può essere di interesse cantonale, la cui salvaguardia compete al Cantone, o di interesse locale, la cui salvaguardia compete al Comune».

E allora?

«Oggi troviamo in molti Comuni elenchi di beni culturali ripresi dalle liste elaborate dal Cantone prima del 1997. Per esempio, a Mendrisio sono tutelati la villa Argentina o l’ex Ospedale della Beata Vergine, mentre non lo sono diverse ville di notevole pregio, come il villino liberty Andreoli o la chiesa dei Cappuccini. Dopo anni di richieste è ora finalmente in corso la revisione del PR per ovviare a queste lacune. Il lavoro va fatto in collaborazione col Cantone che ha allestito il censimento dei beni culturali sulla base del quale i Comuni dovrebbero procedere. Lugano l’ha fatto una decina di anni fa, Bellinzona in tempi più recenti, Locarno lo sta facendo».

Come si stabilisce che un oggetto va tutelato?

«Vi sono precisi criteri storico-architettonici, artistici e culturali, codificati a livello internazionale in Carte specifiche: in Svizzera sono stati riassunti dalla Commissione federale dei monumenti storici presieduta dall’arch. Bernhard Furrer. Intervenendo anche su una proprietà privata bisogna portare motivazioni fondate».

E se il privato non ha i soldi?

«Già oggi la LBC prevede un aiuto da parte del Cantone o dei Comuni. In Gran Consiglio è pendente la revisione della legge sulla protezione dei beni culturali che propone di aumentare la partecipazione dei Comuni e del Cantone in questi aiuti mirati per evitare che persone che non hanno i mezzi finanziari sufficienti abbandonino i beni al loro destino, con un impoverimento per la comunità».

Ritiene che la corsa alla cementificazione si sia arrestata?

«A giudicare dagli investimenti degli ultimi anni direi di no. Anche perché la congiuntura economica favorisce gli investimenti, di Casse pensioni e assicurazioni, nell’edilizia, perché è un bene rifugio. I tassi di interesse negativi spingono ancora di più in questa malsana direzione. E i piani regolatori lo permettono: sono stati impostati su criteri di crescita continua e sono sovradimensionati e perciò favoriscono la cementificazione».

In particolare, dove?

«La minaccia maggiore riguarda i quartieri ottocenteschi delle città principali. Si sta investendo tantissimo nel Bellinzonese con fuga di abitanti dal Luganese per i prezzi delle abitazioni sempre più alti. È un tema complesso che coinvolge più settori e dovrebbe portare la politica ad avere una visione che dia priorità alla qualità di vita, al tessuto storico-architettonico, così come a parchi e giardini che – visti i cambiamenti climatici – sono sempre più importanti nei centri abitati».